venerdì 2 settembre 2016

Charlie Hebdo e gli italiani: ovvero, facile fare i satirici con le disgrazie degli altri



 Conscio che con questo articolo potrei perdere tantissimi lettori e una larga fetta di amici, vi espongo il mio pensiero sulla vignetta di Charlie Hebdo riguardante il sisma del centro Italia.


Siamo chiari fin da subito. Se l'Italia non è un Paese per giovani, Charlie Hebdo non è una rivista per stomaci deboli. La sua satira è sempre stata sferzante, provocatoria, offensiva e diverse volte anche blasfema.
Conosciamo tutti la storia di Charlie Hebdo. E sappiamo tutti cosa successe all'interno della redazione in quei tragici giorni di gennaio 2015. Il mondo venne subito smosso da un'ondata di sdegno. Su tutti i social si diffuse l'hashtag "jesuischarlie". E chi condivideva questo hashtag, nella maggior parte dei casi, non esprimeva solo lutto per quello che era capitato ai vignettisti di Charlie Hebdo, ma sosteneva anche quella che era la politica editoriale del giornale. Libertà di espressione e di satira senza alcun limite. Nessun problema, quindi, a pubblicare un Maometto dalla forma fallica e un altro che ha rapporti anali con Gesù Cristo.
 In questi ultimi giorni una vignetta di CH ha suscitato particolare scalpore all'interno dell'opinione pubblica italiana. Oggetto della satira dei francesi è, stavolta, il terremoto in centro Italia. Una illustrazione che ha indignato tantissime persone. Perché? "E'di cattivo gusto paragonare trecento morti a piatti di penne al sugo e lasagne" dicono praticamente tutti.
 Ebbene, a queste persone io dico:"Buongiorno". Perché sono cascate dal pero. E, soprattutto, perché molti di questi elementi avevano in passato sostenuto Charlie. Non si sono mai accorte che questo è il tipo di satira che porta avanti Hebdo? Nulla da dire contro le vignette su Maometto, contro quelle su Alan Kurdi o, addirittura, contro quelle sulla strage di Nizza. Ma guai se la satira cattiva invade l'orticello di casa nostra e parla delle nostre disgrazie. No, questo non si fa, miei cari francesi.
 Certo, qualcuno dirà che si può sempre cambiare idea. Che chi ha sostenuto CH all'epoca non ha il dovere di approvarlo anche adesso. Ci si può sempre ripensare. Questa replica, rispondo io, non ha alcun senso. Perché il ripensamento parte proprio dal fatto che, come già ho spiegato, molti di quelli che parteciparono alla campagna "jesuischarlie" dopo gli attentati condividevano il  concetto di satira della rivista. Altri invece, passato il clamore mediatico, hanno ripreso ad ignorarla, come facevano prima. E si sono quindi persi altre perle, che avrebbero potuto far discutere, come quelle su Nizza, Kurdi e Maometto. Chi oggi dice:"Sostenevo Charlie Hebdo ai tempi degli attentati ma oggi lo critico per la vignetta al terremoto che potevano risparmiarsi" pecca, a mio modo di vedere, o di incoerenza o di disinformazione. Allorché non abbia appoggiato la rivista solo in quanto vittima di atto violento, senza dare assenso alla suo modello di satira. O si è sempre Charlie o non lo si è mai.
 Parliamo adesso della vignetta. Molti la criticano perché non fa ridere. Io non credo che una vignetta satirica debba far ridere. Penso che, piuttosto, debba strappare un sorriso amaro (che non è affatto una risata) e indurre alla riflessione. Molte persone, a mio modo di vedere, si sono fermate all'apparenza, nel giudicare l'illustrazione. Il messaggio che c'è dietro, però, è a mio modo di vedere giusto. Il titolo del disegno è, tradotto "Sisma all'italiana". Il che mi induce a pensare che l'ideatore stesse pensando non al terremoto di pochi giorni fa ma, più in generale, a come questo evento naturale viene vissuto in Italia. Secondo aspetto: il riferimento ai piatti tipici della nostra nazione. Sono scritti sopra le vittime. Cosa può voler dire? Forse che politici e imprenditori "mangeranno" su questa ennesima tragedia come hanno già fatto in passato? Credo che questa sia l'interpretazione corretta. Considerata anche la risposta della rivista francese alle polemiche sul web:"Non siamo noi a costruire i palazzi in Italia, è la mafia".
Certo, di una cosa, però, si può accusare il giornale francese: se questo è il messaggio, non traspare per niente bene dai disegni che, quindi, sono ben poco comunicativi e fraintendibili. Ergo, ad una lettura superficiale essi possono effettivamente comunicare una presa per i fondelli ai terremotati.
 La mia posizione su Charlie? Ho lo stomaco un po'deboluccio. Difenderò comunque il loro diritto a fare satira come preferiscono, e il mio a criticarli ogni volta che voglio.  

lunedì 29 agosto 2016

Recensione di "Non tutto è come sembra" di Ornella Nalon

Salve a tutti (di nuovo)! Stamattina mi sento male, ho raffreddore e mal di gola, quindi visita dal medico, niente studio e un po'di tempo per dedicarmi al blog. Oggi vi presento la recensione di "Non tutto è come sembra" di Ornella Nalon, 0111 Edizioni. Un buon romanzo "classico". Perché lo definisco così? Leggete la recensione e scopritelo.

Giovanni Colucci, campano emigrato in Veneto, è un maresciallo dei carabinieri. Un giorno deve vedersela con quello che sembra un banale incidente stradale, nel quale ha perso la vita Giancarlo Visconti, uno psicologo. La tesi del semplice incidente non convince però del tutto Colucci, che decide di indagare meglio sull'evento. Considerato anche che, nei mesi precedenti, altri due psicologi sono morti in circostanze non del tutto trasparenti.
"Non tutto è come sembra" è un poliziesco che segue due linee narrative. Nella prima si racconta delle indagini del maresciallo Colucci; nella seconda si narra invece della sua vita privata e del suo passato. Dai quartieri difficili di Napoli agli amici finiti a parteggiare con la camorra, dal matrimonio alla nascita dell'adorata figlia fino al divorzio e alle scappatelle.
Entrambi i filoni narrativi sono scritti in un buon italiano, che rende scorrevole la lettura dell'opera. La struttura del romanzo è abbastanza semplice: undici capitoli scritti tutti al passato remoto e in terza persona. Anche questo aspetto facilita il lettore nel seguire gli sviluppi della trama. La figura psicologica del maresciallo Colucci è analizzata con una precisione che rende credibile il personaggio principale dello scritto.
L'indagine del maresciallo Colucci ha, ovviamente, il suo colpevole. E qui Ornella Nalon mostra la sua bravura nel tenercelo nascosto fino all'ultimo, disseminando le ricerche di Colucci di numerose false piste. Il romanzo, soprattutto nelle sue fasi finali, è caratterizzato dalla giusta tensione narrativa.
Forse, però, il libro perde qualcosa sotto l'aspetto dell'originalità. Piccola premessa: non sono un avido lettore di gialli-polizieschi, quindi forse la mia opinione dipende anche da una non elevata conoscenza del genere. Manca comunque, a mio modo di vedere, una scintilla, stilistica o narrativa, che renda "Non tutto è come sembra" diverso dagli altri romanzi del suo genere. Da questo punto di vista lo scritto appare un po'troppo classico. Un peccato: Ornella Nalon, con la penna che si ritrova, avrebbe potuto secondo me osare qualcosa di più.
In ogni caso, "Non tutto è come sembra" resta un romanzo interessante e ben scritto che merita sicuramente di essere letto.

venerdì 26 agosto 2016

Recensione "Phoenix - Operazione Parrot" di Francesca Rossini

Salve a tutti. E'da un po'che non scrivo sul blog, inutile dire che quest'estate sono stato molto "impegnato" e che ora ho ripreso a studiare per dare un esame a settembre. In ogni caso, vi lascio la recensione di Phoenix - Operazione Parrot di Francesca Rossini, edizioni Lettere Animate. Buona lettura!



Phoenix-Operazione Parrot è il primo romanzo di Francesca Rossini. Già nella sua prima opera l'autrice ha messo in mostra quelle che sono le sue migliori qualità.
 In primis, la Rossini ha avuto il coraggio di affrontare una fase storica non molto lontana, quella della Guerra Fredda, ma comunque ancora oggi parecchio controversa. E l'ha fatto in modo convincente. Una cosa che non sopporto in un romanzo storico è -ovviamente- la pessima ricostruzione storica. Oltre le righe di Phoenix-Operazione Parrot si nota invece un lavoro di documentazione senza dubbio apprezzabile.
La storia è ambientata all'inizio degli anni '80, in una fase di revival della Guerra Fredda dovuta alle presidenze di Reagan e di Thatcher, non proprio due teneroni nei rapporti con l'Unione Sovietica. Protagonisti sono Clay, agente dei servizi segreti americani dagli atteggiamenti da playboy, e Leila Lane, infermiera, collaboratrice in incognito dei servizi statunitensi e donna dalla vita familiare alquanto convulsa. Sogno di Leila è quella di entrare ufficialmente nei servizi, per rompere anche con la monotonia della propria vita. Una sera Clay deve svolgere una missione nell'ospedale in cui lavoro Leila: catturare una spia sovietica sotto copertura, Vinogradov, col quale ha un vecchio conto in sospeso. La missione, però, non va come previsto. Clay si ritrova a dover lavorare per settimane fianco a fianco con Leila, che in un primo momento mostra tutta la sua inesperienza nel campo dello spionaggio, ma risulta poi decisiva per gli sviluppi successivi dell'intreccio. Questi ultimi vedranno la "strana coppia" in missione anche in Europa e impelagarsi in una difficile relazioni sentimentale del tipo "2+1".
 L'intero romanzo è scritto in un buon italiano, ed è dotato di una struttura lineare e semplice, che rende l'opera scorrevole. Il lettore non ha alcuna difficoltà a seguire gli sviluppi della narrazione. Un altro aspetto encomiabile di "Phoenix - Operazione Parrot" è la caratterizzazione dei personaggi. I risvolti psicologici dei principali protagonisti (Clay, ad esempio, ha una storia crudele alle spalle ed è meno superficiale di quanto darebbe a vedere) vengono analizzati in modo interessante, senza cadere però nell'eccesso e nella pesantezza. Dall'inizio alla fine della vicenda, inoltre, essi mutano, maturano, non rimangono mai uguali a sé stessi; sono, da questo punto di vista, veri.
"Phoenix - Operazione Parrot" è un romanzo che risalta nel suo genere, e che senza dubbio non farà annoiare i lettori che decideranno di dargli una possibilità. 

mercoledì 13 luglio 2016

La scoperta delle mandorle e la cultura del silenzio (che non esiste)



Ultimamente mia madre ha intrapreso una dieta che la porta, ogni mattina a colazione, a mangiare delle mandorle. Qualche giorno fa ne ho assaggiate alcune, e le ho trovate buonissime. Così da qualche pomeriggio a questa parte mi abboffo di mandorle e ho ben poco tempo per parlare: la mia bocca è impegnata a masticare.
 Che cosa significa questo piccolo aneddoto? Molto semplicemente, che il silenzio è una cosa davvero importante.
 Bisogna imparare a stare zitti, in alcune circostanze. Bisogna riconoscere le circostanze in cui è necessario collegare il cervello alla bocca, prima di parlare. In passato sono state combattute guerre feroci, sono stati versati ettolitri di sangue per il sacrosanto diritto di parola. Avere il diritto di parola, però, non necessariamente implica il dovere di dire la propria. Almeno, non subito.
 Nel silenzio si legge, e si apprende, con maggiore tranquillità. Si ascolta, e si impara, con più ampia attenzione e profitti più alti.
 Ma perché dico questo? Perché ogni santa volta che succede un evento drammatico tutti i cittadini del pianeta Italia sentono l'impellente bisogno di dire la propria. Anche senza capire un cavolo dell'argomento in questione. Senza nemmeno aver provato a capirci qualcosa, documentandosi cinque minuti su una Wikipedia qualsiasi.
Ci sono gli attacchi al Bataclan e a Bruxelles? Improvvisamente tutti diventano esperti di sicurezza e intelligence internazionale.
 C'è la Brexit? E tutti si trasformano in esperti di economia e storia dell'integrazione europea.
 C'è uno scontro fra due treni sulla linea Bari-Barletta della Ferrotramviaria? Tutti provetti ferrovieri, all'improvviso.
  
E'un atteggiamento che pregiudica la qualità del dibattito pubblico, fondamentale, in una democrazia. Inviterei tutti i sapientoni di turno a documentarsi per almeno 24 ore, dopo una tragedia, per poi esprimere la propria modesta opinione. Senza la pretesa di aver ragione, magari.
 Ma non ce l'ho solamente con i comuni mortali. Me la prendo anche con i nostri rappresentanti che, appartenendo giustamente a classici partiti o movimenti acchiappatutti, sguazzano in queste tragedie come maiali nel fango dimostrando, per l'appunto, di essere degli animali. Mi viene in mente Salvini, che si sfregava le mani dopo le esplosioni in Belgio e, mentre la conta dei morti non era ancora terminata, già propagandava contro l'Unione e, ovviamente, contro Renzi.
 Ma penso anche ai rappresentanti del Movimento 5 Stelle. Che non hanno perso l'occasione, forse spinti anche dalla voglia di sfruttare la scia dei loro recenti successi elettorali, per sputare in faccia al Governo marciando sui cadaveri delle vittime dell'ultimo tragico incidente ferroviario. Tutto, ovviamente, quando ancora nemmeno si sapeva il numero preciso di deceduti e feriti. Puntando il dito, tra l'altro, contro l'argomento sbagliato. Ebbene sì: il problema che ha causato l'incidente non è stato il maledetto binario unico (ma loro avevano davvero tanta fretta di esercitare il vostro presunto "obbligo di parola",non potevano aspettare dieci ore in più).

Volete sapere perché?
 Fate silenzio e leggete. Ascoltatevi. Documentatevi.
Mangiate mandorle.
 Ma fatelo in silenzio.

 I morti non vanno disturbati.

venerdì 24 giugno 2016

Brexit, un grido lanciato all'Unione Europea



L'evento che da un anno spaventava sia Bruxelles che i mercati finanziari di mezzo mondo alla fine si è verificato: tramite un referendum popolare, il Regno Unito ha deciso di dire addio all'Unione Europea.

Questo abbandono rappresenta senza dubbio un evento storico. Mai prima di oggi, infatti, uno Stato aveva deciso di abbandonare l'Unione Europea. Questo risultato rischia di dare il via a un pericoloso effetto domino. Poche ore dopo la comunicazione dei dati ufficiali, già l'olandese Wilders e la francese Marine Le Pen hanno paventato l'ipotesi di referendum simili nei rispettivi Stati. Ipotesi, questa, non totalmente da escludere.

Ma da dove partire per analizzare un fatto di tale portata? Magari dai dati, che possono dirci già qualcosa. Il "Leave" ha vinto, questo è assodato, ma non con un consenso strabiliante. La forbice tra il "Leave" e il "Remain" è davvero sottile: 51.9 contro 48.1. Purtroppo, però, i referendum funzionano così: basta il 50%+1 per vincere. Se il fronte di Farage avesse prevalso con il 50.01% dei voti, la Brexit sarebbe comunque diventata realtà, e nessuno avrebbe potuto contestare.

 Un altro aspetto interessante da tenere a mente è, pare, che il "Leave" ha convinto soprattutto l'elettorato più anziano e quello con un livello di istruzione meno elevato. Le statistiche direbbero così. Diventa quindi facile, per qualcuno, asserire che la Brexit è stata determinata da individui che con buona probabilità non vivranno altri quattro o cinque anni e da ignoranti che si sono fatti abbindolare dalla propaganda populista e xenofoba di Nigel
Farage.
  
Il che è vero, ma solamente in parte. I giovani britannici avranno anche votato in modo quasi compatto per il "Remain" ma... in pochi si sono presentati alle urne. Già alle elezioni generali dell'anno scorso solo il quarantatre per cento dei giovani aventi diritto di voto espresse davvero la propria preferenza, contro il settantotto per cento dei pensionati. Un dato che sembra paradossale. I giovani inglesi preferiscono far decidere del loro futuro a persone che, con buona probabilità, entro cinque anni saranno sotto terra. Da questo fenomeno si possono, a mio modo di vedere, trarre due conclusioni. Numero uno: i giovani inglesi hanno scarso senso civico. Numero due: a una discreta parte dei giovani inglesi non interessava poi così tanto rimanere in Europa. Il Regno Unito, quindi, esce da questa esperienza molto disunito, sia dal punto di vista anagrafico che dal punto di vista politico. Scozia e Irlanda del Nord, in cui ha vinto il fronte del "Remain", minacciano già la secessione da Londra.

E veniamo adesso ad un'altra questione che sta dividendo l'opinione pubblica in queste ore. Come già ricordato, la maggioranza di coloro che hanno scelto il "Leave" ha un titolo di studio basso. Una scelta consapevole a favore o contro la Brexit avrebbe dovuto implicare, negli elettori inglesi, una consapevolezza storica, economica e politica che sicuramente molti non avevano. Da qui, nasce spontanea una domanda: è giusto lasciare una decisione di questo genere a un elettorato impreparato?
Difficile rispondere positivamente. In Italia, ad esempio, una cosa di questo genere difficilmente potrebbe avvenire. L'articolo 75 della nostra costituzione, infatti, vieta che possano essere indetti referendum nelle seguenti materie: leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
  
Tuttavia, credere che la Brexit sia stata causata esclusivamente dall'ignoranza e dalla xenofobia delle formazioni di destra, è come credere alla retorica salviniana secondo la quale la crisi dei migranti è dovuta ai buonisti e alle cooperative rosse. Osservare il dito che indica la luna e non la luna, per intenderci.
  
Qui, mi permetto di esprimere qualche considerazione più personale. In primis, non comprendo tutto questo stupore nei confronti della Brexit. Il Regno Unito storicamente, infatti, non ha giocato un ruolo importantissimo nel processo di integrazione europea. Non c'era, quando nel 1951 venivano firmati i Trattati di Parigi con cui veniva istituita la CECA; non c'era nel 1957, quando con i trattati di Roma nasceva la CEE; è arrivato solamente nel 1973. Da quel momento, ha applicato delle politiche contrarie ad un aumento dei poteri della Comunità e ha adottato la logica del cherry-picking. Cioè, ha potuto decidere di volta in volta cosa accettare o non accettare della legislazione europea. Infatti, giusto per citare qualche esempio, ha aborrito la moneta unica, ha scartato il Fiscal Compact, ha aderito a Schengen ma con delle logiche tutte particolari. Come ha giustamente fatto notare qualche analista, il Regno Unito ha ricevuto dall'Europa più di quanto abbia dato.

 La fuoriuscita della Gran Bretagna dalla UE potrà essere additata anche ai non-laureati britannici che magari si sono fatti prendere dalla paura o dalla demagogia. Ma è innegabile che il comune sentimento anti-europeo che tocca il Regno Unito e ormai tutti gli Stati dell'Unione è da additare allora a quei laureati, quindi teoricamente esperti e preparati, che siedono nelle istituzioni europee e hanno preso, nel tempo, delle scelte a dir poco aberranti.  A Rai News 24 oggi l'ex premier Enrico Letta ha sottolineato come le nuove sfide del mondo globalizzato, come la concorrenza dei prodotti dei paesi del BRICS, la sicurezza, la disoccupazione giovanile, possano essere vinte solamente con una Europa unita. Cosa teoricamente giusta. Peccato che sia da almeno quindici anni che l'Europa combatte queste sfide e, puntualmente, le perde, perché prende le decisioni sbagliate.

Come è pensabile, per esempio, combattere la concorrenza dei prodotti cinesi soffocando l'economia con vincoli fiscali estremamente restrittivi? Che soffocano l'innovazione, lo sviluppo, gli investimenti, l'occupazione, in nome di questo mito sacro del pareggio del bilancio? La crisi del 2007-2008 è arrivata dagli USA, senza dubbio, ma è stata amplificata da scelte bizzarre degli organi comunitari, questo non è un mistero. Come è pensabile gestire la questione dei migranti (di certo non nata ieri) se non si riesce ancora a trovare un accordo sulla faccenda? La sfida della sicurezza, come mostrano gli eventi recenti, è tutt'altro che vinta.

 L'addio della Gran Bretagna ci lancia un messaggio forte e chiaro: questa Unione Europea, così com'è, non va bene. Perché, pur nata e animata da idee buone, è portata avanti da politiche economiche e sociali discutibili.
  
Eppure, gli Stati europei hanno bisogno dell'Unione. Perché? Sembrerà una banalità, ma la storia ci dice questo: per mantenere la pace. La storia del continente europeo è infatti, a partire dalla pace di Westfalia del 1648 ma in realtà anche da prima, la storia di Stati nazionali che ora per un motivo e ora per un altro scendono in campo e si fanno la guerra. Inghilterra contro Francia, Francia contro Germania, Spagna contro Regno Unito, Italia contro Austria e l'elenco potrebbe proseguire all'infinito. Il più lungo periodo di pace per l'Europa lo si è avuto, guarda caso, proprio da quando è iniziato il processo di integrazione europea.

 Insomma, l'Europa non dovrebbe ripensare ai propri fondamentali, ma alle sue pratiche. Le politiche scellerate degli organi di Bruxelles alimentano i populismi delle diverse nazioni e rischiano di distruggere ciò che è stato fatto di buoni fino a qui. E, soprattutto, rischiano, in futuro, di far riprecipitare il Continente nel suo passato sanguinario. Questo è l'urlo che ci lancia il Regno Unito oggi:"Europa, cambia, finché sei in tempo".