L'azione violenta dell'Isis, fino a una settimana fa, non aveva ancora toccato i beni culturali, stranamente. Poi i miliziani hanno deciso di recuperare il tempo perduto e hanno distrutto Mosul, Nimrud, i mausolei sifidi a Sirte e vari simboli della cristianità sparsi in tutto l'Iraq. Tutti, ovviamente, patrimoni dell'umanità secondo l'Unesco, che ha chiesto, per favore, almeno un elenco dei siti danneggiati, qualora ne fosse sfuggito qualcuno. I danni, si intende, sono irreparabili.
Di quanto fin qua detto, si può pensare di tutto: che è una barbarie, che è un'azione deplorevole, che è ingiusto e quant'altro. Una sola cosa è scorretto ritenere: che si tratti di un gesto inaspettato.
Da quando mondo è mondo, purtroppo, funziona così. Gli stati dittatoriali che vogliono affermarsi, o che sono alla fine della loro esistenza, puntano alla distruzione dei ricordi, della memoria collettiva, che è uno dei perni di qualsiasi società. Ma non puntano a distruggere una memoria qualsiasi, no signori. Annientano quella scomoda. Così fecero i nazisti, con la messa a bando di centinaia e centinaia di libri, e così fecero anche i comunisti in Cina, che rasero al suolo o trasformano centinaia e centinaia di templi millenari. La distruzione dell'identità a partire dalla cancellazione della memoria collettiva non conosce distinzione fra destra e sinistra.
Non è un caso che tutti i siti culturali finiti sotto le ruspe del Califfato siano ben precedenti alla nascita della religione mussulmana (alcuni risalgono a più di tremila anni fa). L'idea che la Siria, l'Iraq, il Libano abbiano radici culturali che con il Corano non hanno nulla a che vedere è intollerabile, perché delegittima chi, con la forza, vuole riappropriarsi di quelle terre. Meglio risolvere il problema alla radice, e cancellare tutto.
Tutto ciò, purtroppo per i miliziani, non cancellerà la memoria a milioni e milioni di cittadini asiatici che hanno visto distruggere con i loro occhi tremila anni di civiltà. Il pericolo più grande per l'Isis non sono gli Stati Uniti malvagi, ma coloro che vorebbe rendere suoi sudditi.
Domenico Andrea Schiuma
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