Buongiorno a tutti, lettori di Pagine delle nostre vite. Oggi sul nostro blog facciamo la conoscenza di Paola Casadei, autrice del romanzo "L'elefante è già in valigia", edito da Lettere Animate. Una donna che, vi do qualche piccola anticipazione, ha viaggiato moltissimo nel corso della sua vita e che ha condensato parte delle sue esperienze nel suo libro. Curiosi di saperne di più su Paola? Allora ecco a voi l'intervista che le abbiamo fatto. Buona lettura ;)
Ciao Paola, e benvenuta su Pagine delle nostre vite. Prima di tutto parlaci un po'di te. Ti sei laureata in Farmacia con 110 e Lode... per errore, dici tu. Vuoi spiegarci questa affermazione?
-Non ho seguito il mio vero desiderio: insegnare italiano. Ho sempre pensato che avrei voluto iscrivermi a Lettere, eventualmente a Lingue, le scienze non erano il mio forte. Però a scuola mi dicevano che non avrei trovato lavoro, allora ho ripiegato su Farmacia, per seguire le orme della mia prof del liceo, che mi aveva fatto scoprire e amare la chimica. Ma non era la scelta numero uno e un po’ l’ho rimpianto.
Nella tua vita hai girato non poco il mondo. Sei nata a Forlì, poi hai vissuto a Roma, a Montpellier e poi dodici anni in Africa. Come sei approdata nel continente nero?
-Per amore. Ho semplicemente seguito mio marito, ricercatore per un Centro di Ricerche francese. Mi sono fidata ciecamente delle sue scelte e non me ne sono mai pentita.
Quali sono i ricordi più belli che hai dell'Africa?
-I safari che facevamo quasi ogni mese con i bambini , la ricerca degli animali nei parchi naturali, immersi nel silenzio della savana, nel caldo, nella natura. I lions parks dove potevamo prendere in braccio cuccioli di leone e nutrirli col biberon. Il deserto della Namibia, le balene viste a pochi metri, che mi hanno emozionata fino alle lacrime. Certe vacanze su isole sperdute e per nulla turistiche e le feste con bambini e le mamme provenienti da tutti i continenti, a raccontarci storie dei nostri Paesi sorvegliando i figli.
Veniamo adesso al tuo romanzo. Carlotta, la protagonista sedicenne, dopo una vita trascorsa in Africa arriva in una "città chiusa e borghese del centro-nord". Aiutaci a sfatare questo mito. Sono solo le città del sud a subire fenomeni di arretratezza culturale, o è un problema più diffuso di quel che si pensi?
-Arretratezza culturale... forse solo tradizioni. L’Italia è composta di regioni molto diverse l’una dall’altra. Il Sud ha già vissuto questo fenomeno, in tanti migravano al Nord per cercare lavoro, ma la Romagna è sempre stata una terra di contadini, molto legati alla casa e alla famiglia, dunque per i genitori è difficile accettare che i propri figli partano, o almeno lo era vent’anni fa. Spero che la situazione stia cambiando. Penso che all’inizio noi fossimo visti un po’ come gli emigranti degli anni Cinquanta. Ma ora partire è molto di più, inoltre è più facile gestire una espatriazione di qualità, magari solo temporanea. Ho letto rapporti di fondazioni che si occupano di “emigrati italiani”, non solo i tradizionali “cervelli in fuga” ma anche “braccia in fuga” o studenti, e in molti pensano per esempio che all’estero la meritocrazia sia più riconosciuta che in Italia. Con la crisi, tra il 2007 e il 2008 un’altra ondata di partenze è ripresa, dato che non tutti sono disposti a rimanere nella propria città dovendo ricorrere agli aiuti dei genitori fino ai 40 o 50 anni.
Carlotta, prima di iscriversi a una scuola italiana, frequenta un istituto ricco di nazionalità. Saprai bene che qua in Italia c'è qualcuno che non vede di buon occhio la commistione fra studenti italiani e stranieri. Cosa pensi al riguardo?
-È diverso. All’estero eravamo tutti stranieri raggruppati in una scuola (francese nel nostro caso), in Italia lo straniero è ancora solo l’immigrato, nero o cinese. Non si può tentare alcun confronto. Personalmente sono stata entusiasta di vedere queste mescolanze, di realizzare che poco a poco tutti i bambini e in genere anche i genitori cercavano di integrarsi e non di escludersi, bianchi e neri, palestinesi e israeliani, cristiani e musulmani.
Carlotta utilizza alcune tecnologie moderne (ad esempio, Skype) per rimanere in contatto con le sue amiche ormai lontane. Come giudichi le rivoluzioni tecnologiche che stanno riguardando i mezzi di comunicazione e, soprattutto, il mercato dell'editoria?
-Le rivoluzioni tecnologiche sono entusiasmanti, ma per alcune ci vuole tempo. Skype è immediato, qualcuno spiega come scaricarlo e magicamente i nonni possono vedere i nipotini dall’altra parte del mondo senza spese. Per quanto riguarda l’editoria vedo che anche per voi giovanissimi non è facile passare all’ebook. Per la mia generazione è ancora più difficile.
Il tuo è un libro che ruota attorno all'Africa. Quali sono i tuoi autori africani preferiti? Quali sono i tuoi libri preferiti sull'Africa?
-Questa domanda mi piace particolarmente, potrei andare avanti per ore a parlare dei miei autori. Ne citerò solo alcuni, tutti sudafricani: Il primo che ho letto è “Vergogna!” di J.M Coetzee, Premio Nobel per la letteratura. Ne hanno tratto un film con Malkovich. Poi ho letto alcuni romanzi di A. Brink, tra cui “Un’arida stagione bianca”, da cui hanno tratto un film con Donald Sutherland e Marlon Brando... Ho letto racconti di Nadine Gordimer, un libro lo cito nel libro: “Beethoven era per un sedicesimo nero” e mi sono piaciuti particolarmente i libri di Zakes Mda, artista nero sudafricano, “Madonna of Excelsior” e “Ways of dying”. Ah, devo citare un film, “In my country”, con Juliette Binoche, tratto da un libro di memorie di Antije Krog, anche lei sudafricana: “Terra del mio sangue”, che parla della fine dell’apartheid e del lavoro svolto dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Doloroso e tremendo più degli altri per le verità che racconta, inutile dirlo. Autori mozambicani che ho letto sono Mia Couto, un autore bianco, figlio di portoghesi emigrati in Mozambico, con il quale ho avuto il privilegio di discutere di libri, e Paulina Chiziane, la prima donna mozambicana a pubblicare un romanzo. Il mio preferito è “Niketche, una storia di poligamia”.
Piccolo excursus culinario. Nel romanzo fai riferimento ad alcuni piatti tipici africani, come ad esempio il bobotie,la thieboudienne e il caril de camarão. Ce li descrivi brevemente?
-Il bobotie è una preparazione che perde un po’ del suo fascino se raccontata brevemente: un tortino di carne, con aggiunta di alloro, curry, chutney, salsa Worchester, turmeric e uvette. Passato in forno e accompagnato con riso allo zafferano, yogurt bianco, pomodori, cetrioli, banane, cocco grattugiato.
La thieboudienne è un piatto classico della cucina senegalese, a base di pesce, riso bianco e grandi quantità di verdure, patate, patate dolci, zucca, melanzane. Il gioco è nella presentazione del piatto.
Il caril de camarão è un piatto che ho mangiato in Mozambico, a base di gamberi cotti in una salsa a base di cocco profumato con latte di cocco e cocco grattugiato, ingrediente principale della cucina mozambicana. Racconto poi di mafé, chakalaka, matapa. Buon appetito!
L’Africa, dice Kapuscinski è “…un vero e proprio oceano, un pianeta a parte, un cosmo eterogeneo e ricchissimo. È solo per semplificare che lo chiamiamo Africa. In realtà, a parte la sua denominazione geografica, l’Africa non esiste.” E tu aggiungi che non lascia indifferente nessuno, ti marca a vita. Dacci tre buoni motivi per organizzare il nostro prossimo viaggio in Africa.
-L’esplosione della natura, dai parchi agli oceani e alle spiagge, dal deserto alle montagne. I big five, dunque animali selvatici nel loro ambiente naturale, oltre che gli squali bianchi e le balene. La cultura locale vista nei mercatini, nelle danze, nei culti, nelle città.
Grazie mille per le tue risposte a Pagine delle nostre vite, e in bocca al lupo per il tuo romanzo.
Blog in cui si parla di attualità, cultura, libri e quant'altro. Il tutto gestito da uno squattrinato, disordinato, alienato studente di Scienze Politiche di Bari.
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